Dalle Delegazioni: Sicilia

Epulae Sicilia.Colori e profumi dei mercati

Dalle Delegazioni Di Mario e Giuseppe Liberto Hans era tedesco. Lo era per il nome, ma anche per la sua meticolosa puntualità. Io abitavo in via Alessandro Paternostro, di fronte al mercato della “Vucciria”. Allora studente universitario, per arrotondare la mia paghetta settimanale, mi ero accordato con un’ agenzia di viaggi e portavo in giro questi curiosi turisti che arrivavano da soli e volevano visitare la città con mete personalizzate. All’appuntamento con Hans arrivai con due minuti di ritardo e mi toccò pagare la nazionalpopolare colazione: cornetto e caffé. Dopo ci incamminammo verso la “Vucciria”. Per strada avevo raccontato la storia di questo mercato, le tecniche di marketing dei vari venditori, i colori, l’economicità dell’acquisto, ecc. Alla fine Hans mi disse: “Renato Guttuso”. Capii subito che quel mezzo pelato tedesco aveva collegato tutto. Scendemmo la scaletta, che da via Roma porta nel cuore di piazza Caracciolo, e all’ultimo gradino fece un respiro a pieni polmoni ed esclamò: “profumo”. Poi si ricompose e fece un enorme sorriso. Mille cose lo attrassero: il pesce così abbondante e quasi vivo, i quarti di bue penzolanti trattenuti da enormi ganci alle travi, panelle, cazzilli e stigghiola, i contrabbandieri di sigarette, le grandi basole bagnate, ecc.; ma il suo visibilio fu raggiunto davanti al primo negozio di frutta e verdura. Rimase colpito dall’enorme scenografia. Non riuscivo a capire se fosse compiaciuto dell’artista che aveva creato quel fantasioso addobbo dalle sfumature così saggiamente composite e persuasive. Ero passato dal quel vicolo centinaia di volte, eppure non mi ero mai accorto di quel tripudio di colori. In alto, quattro appariscenti tavole raffiguravano le gesta dei paladini di Francia (difficile capire chi fossero i mori e chi i cristiani). Ma questo aveva poca importanza. Al centro dell’impalcatura, circondata da una serie di luci che evidenziavano la cornice, c’era l’immagine di S. Rosalia, la Santuzza di Palermo. Attaccata alla cornice, in basso, ci sorrideva un’immagine di S. Giuseppe con Gesù in braccio. Poi iniziavano le file di frutta. La prima era occupata dagli agrumi. Due casse, riempite di arance “portualli” di un colore intenso, erano sistemate accanto ad un’altra cassa di mandarini di Ciaculli, e poi, a seguire, un’altra di limoni femminello. La fila sottostante era riservata alle mele e alle pere. Si andava dal verde intenso delle smit al rossiccio delle deliziose, mentre le pere si alternavano dalla varietà coscia a quella decana, intervallate da quelle dell’Etna. Sotto, imperava una miriade di ortaggi. A destra si evidenziava il pomodoro verde costuluto, mentre, accanto, quello rosso per la salsa. A seguire si incontravano le melanzane tunisine e quelle nostrane. Poi i peperoni con le tinte gialle, verdi e rosse. Qua e là spuntavano dei ciuffi d’ananas. E poi ancora lattughe, finocchi dolci, sedano, cicoria, bietole, ecc. Intramezzati a questo ben di Dio, fuoriuscivano dei caschi di banane ora verdi ora gialli. Lateralmente, i fichidindia riposavano indisturbati tra una pagliuzza di colori differenti, che, avvolgendoli delicatamente, li impreziosiva di più. Sul lato sinistro s’innalzava una serie di ripiani che rappresentavano il massimo della perfezione. La prima piramide era costituita da olive verdi, intense e luccicanti dovute per l’olio che le plasmava. Restavano immobili, perfette. Nel secondo ripiano, con la stessa forma e lucentezza, si innalzavano le olive nere, varietà Giarraffa. Completavano la parte più alta le olive schiacciate verdi condite con aglio, origano, olio e peperoncino. Naturalmente non mancavano due grosse pentole inclinate che mostravano patate e carciofi bolliti. Gli angoli del potente arsenale erano riempiti da montagne di concentrato di pomodoro “strattu”, e dal pomodoro secco. In basso, quasi tra i piedi, erano poggiati sacchi di ceci, fave secche, lenticchie e fagioli. Ogni mercanzia aveva delle graziose palettine fatte di piccole canne infilzanti economici ed estemporanei cartoncini che riportavano i prezzi. A proposito di prezzi, questi non venivano mai espressi in cifre piene, ma con importi particolari: 999 lire al Kg., 499 lire al chilo. La bilancia era quella all’antica. Su di un asse di ferro graduato scorreva una sorta di peso detto romano e, all’estremità, attaccato a tre catene, dondolava un piatto di rame. Individuare il peso della mercanzia acquistata era un vero problema. Il venditore, ancor prima d’averti fatto controllare il peso, ti diceva il costo, e velocemente ribaltava il contenuto della bilancia all’interno del caratteristico “coppu”; quindi, lo sistemava dentro il sacchetto della spesa. Quella giornata mi accorsi di vivere in un souk arabo. Eh, sì! Scoprii che quella non era una bancarella di frutta, bensì una tavolozza di un pittore. C’erano tutti i colori: chiari, scuri, ombrati. C’era tutta la Sicilia. Scusatemi! Mi ero dimenticato di Hans. Tra il vociare, le caratteristiche vanniatini e spintoni lo perdetti di vista. Andai a trovarlo la sera in albergo. Aveva acquistato un frutto di ogni specie, di tutto quel ben di Dio. All’imbrunire, nel silenzio della sera palermitana, si gustava i suoi meravigliosi frutti e, sorridendo, ripeteva in dialetto palermitano: “mi mangiu un piezzu di Sicilia”. Mario e Giuseppe Liberto