Donne in vigna

Donna in vigna, Laura Bianchi dell’Azienda Castello di Monsanto - Barberino Val d’Elsa (Toscana)

di Guido Ricciarelli

05/07/2011

Dal libro Donne in vigna, a cura di Mario Busso e Angelo Concas "Edizione Vinibuoni d’Italia Biblioteca". 

Laura Bianchi: il futuro è fare un passo indietro nella nostra storia.

Racconto di Guido Ricciarelli

Il Castello di Monsanto si trova nell’ultimo comune fiorentino del Chianti verso il mare. Questa meravigliosa tenuta settecentesca fu il dono di nozze del padre Aldo Bianchi al figlio Fabrizio nel 1964. Già due anni prima Fabrizio, dando prova di estrema lungimiranza, aveva iniziato a vinificare ed imbottigliare separatamente (primo esempio per la denominazione) le uve di Sangiovese di un singolo cru, Il Poggio, divenuto rapidamente una delle etichette di riferimento nel Chianti Classico. Ad ulteriore dimostrazione della visione di Fabrizio può essere senz’altro citato il Nemo, il celebre Cabernet Sauvignon in purezza prodotto per la prima volta nel 1981 e, dunque, da considerare tra gli antesignani di quel vero e proprio fenomeno dei cosiddetti “supertuscans”.

Laura ha vissuto sin da piccola le cadenze della vigna sino ad inserirsi a tempo pieno nella gestione dell’azienda, affiancando ormai completamente il padre Fabrizio.

Donna affascinante, dal padre ha mutuato l’eleganza dei modi e la fermezza delle convinzioni che fanno del Castello di Monsanto una delle poche realtà toscane di grandezza indiscussa. Grandezza che nasce, a mio avviso, dalla capacità di incanalare sapientemente la personalità innata di questi vini attraverso una tecnica esecutiva accurata, ma mai debordante. A consolidare il mito del Castello di Monsanto, che mette d’accordo gli enofili più esperti ed attempati con gli appassionati alle prime armi, contribuisce senz’altro la straordinaria longevità dei vini, figli di terreni ricchi in sostanze minerali, dominati da galestro scistoso e da strati argillo-calcarei che conferiscono eleganza ed attitudine all’invecchiamento. Presto scoccheranno i cinquant’anni di Sangiovese per Monsanto e basta calpestarlo Il Poggio per comprendere cosa significhi spendere davvero a proposito un termine spesso abusato come vocazione. Una vigna di poco più di 5 ettari ad un’altitudine di 300 metri, ottimale per una varietà bizzosa come il Sangiovese, incastonata in una cornice boschiva degna di un dipinto dei Macchiaioli.

Qui capisci che il grande vino è un destino ineluttabile. Proprio mentre tutt’attorno regnava lo scetticismo per le potenzialità di una zona, quella di Barberino Val d’Elsa, sicuramente in subordine rispetto ad enclaves più celebrate come Castellina, Radda e Gaiole.

La nostra intuizione vincente - dice Laura - è quella di aver visto da subito lì e non altrove un Sangiovese di caratura superiore, che potesse elevarsi rispetto alle versioni quasi sempre rustiche e selvatiche degli anni ’60, prodotte seguendo criteri più quantitativi che qualitativi derivanti dalle consuetudini mezzadrili. Mio padre ha infatti infranto sino dal 1968 il protocollo tradizionale chiantigiano rinunciando all’utilizzo dei raspi e delle uve bianche (Trebbiano Toscano e Malvasia del Chianti) ed eliminando la tradizionale pratica di vinificazione del “governo all’uso toscano”. Ed ha avuto il coraggio di non cercare scorciatoie nelle annate deboli, arrivando addirittura a vinificare uve parzialmente botritizzate in millesimi avversi come 1966 e 1972 pur di non ricorrere al classico aiutino dell’uva internazionale, una tentazione sempre respinta. È piuttosto in altre varietà a bacca nera come Canaiolo e Colorino, visceralmente toscane, che il Sangiovese di Monsanto ha trovato la naturale complicità con un contributo comunque sempre circoscritto in un massimo del 10%.

A Laura va il merito di aver mantenuto questa impostazione anche nei momenti di massima infatuazione per il cosiddetto “gusto internazionale”, quando il Chianti Classico ha cambiato pelle inseguendo modelli stilistici che hanno finito per tradire un aspetto fondamentale come la riconducibilità territoriale. Il Poggio è sempre stato quello, al di là delle mode e delle contingenze di mercato. Le mie prime bottiglie sono state quelle degli anni ’80 con un trittico di esemplare efficacia come 1982-1985-1988, ancor’oggi buonissime. Vini di incredibile freschezza, ingannevolmente sottili, in realtà finemente ricamati e modulati. Realmente emozionanti.

In Toscana per andare avanti occorre fare un passo indietro.

Come non convenire con Laura sulla necessità di arginare quella disinvoltura interpretativa che ha spesso fuorviato tanti produttori chiantigiani. Una strategia di corto respiro che oggi dimostra tutti i suoi limiti.

Castello di Monsanto

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