Parliamo di vino

Racconti di vini di un sommelier errante.

di Claudio Cogliano Sommelier Epulae

11/11/2015

 Racconti di vini di un sommelier errante.
 
  
Dal mondo del vino c’è sempre da imparare, anche quando, per motivi vari, si crede di avere acquisito una certa conoscenza su un determinato argomento: è sufficiente un semplice colloquio conviviale tra parenti o amici per rendersi conto che quello che si è letto o studiato non ha ragione d’essere se non viene associato all’esperienza pratica di avvicinarsi ai colori, al gusto ed ai sapori del territorio, alle tecniche di coltivazione in vigna, alle sempre diverse pratiche di cantina che cambiano da fattoria a fattoria, da casa a casa.
 
Inoltre, per chi, come me, per svariati motivi di carattere professionale e personale, non può vivere quotidianamente l’esperienza diretta di tutte le nozioni acquisite sul piano teorico, ogni volta che si trova di fronte ad uno scenario del tutto nuovo, freme all’idea di conoscere sul territorio i vini scoperti soltanto sulla carta. Figuriamoci quando mi sono trovato proiettato nella città di Verona, di cui avevo sempre sentito parlare come il tempio sacro del vino, senza tuttavia averne conoscenza personale, senza cioè averla vista da vicino.
 
“Mondo non v’è fuor che queste mura”[1], espressione che sottende una verità evidente appena si varca Porta Nuova e si inizia a respirare il centro della città. Emergono caratteri indelebili che connotano i cittadini, i comportamenti, la storia, le tradizioni popolari, la genuinità di Verona e dei Veronesi. Entrano subito nel sangue anche di chi la vede per la prima volta, l’amore per la terra veronese che si manifesta attraverso l’attaccamento alla lirica e la tensione per il vino, come dire che cultura e coltura siano la faccia di una stessa medaglia, più nobile, forse, la prima, più popolare, ora non più, la seconda, pilastri di un precipitato storico che crollerebbe senza l’uno o senza l’altro. Si avverte lirica ovunque: anche nel dialogo quotidiano ciascuno dei tuoi interlocutori può all’improvviso intonare “Se quel guerrier io fossi! se il mio sogno si avverasse!...”[2], allorquando gioisce al positivo esito di un lavoro o di un progetto, oppure “Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono,  donne, ragazzi, vecchi, fanciulle…”[3], al semplice squillare dello smartphone, ironizzando, ma non tanto, sulla propria asserita indispensabilità per gli altri. Parimenti, anche nei colloqui di minore importanza, ci si rende conto che ognuno possiede una conoscenza più approfondita della media in materia di vini, o meglio in materia del vino della provincia di Verona. In realtà, la Provincia si identifica nella Città, tanto quest’ultima propone i suoi forti caratteri anche al di fuori delle sue mura. Intanto, si ha la sensazione di vivere nella città del vino da come i suoi abitanti si avvicinano allo stesso: tutti dispongono di una propria e ricca cantina, in tutti i ristoranti vengono forniti calici appropriati per ogni tipo di vino e cambiati ad ogni cambio di degustazione. Gli stessi camerieri sono pronti ad elargire consigli, a parlare col cliente ed a sostituire la bottiglia in caso di riuscita negativa (ma questo non capita), con le connesse scuse. Anche il bar della più insignificante periferia è fornito di una piccola ma elegante disponibilità di prodotti, alla quale non manca – almeno – un Amarone delle cantine più rinomate. In realtà, c’è un terzo aspetto caratterizzante l’ambiente veronese ed è quello del calcio: l’unica città d’Italia di meno di trecentomila abitanti a disporre di due squadre che, da tempo, militano nella massima serie nazionale, ed una di queste rappresenta un quartiere di circa duemilacinquecento persone, ma si ritrova un seguito di simpatizzanti pari al quintuplo. Qui, però, nessuno intona “Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All'alba vincerò!...”[4], visto che né Hellas, né Chievo da un po’ di tempo a questa parte vedono purtroppo blasone alcuno.
 
Ma tornando agli argomenti che ci riguardano, devo dire che sul piano vitivinicolo la Provincia di Verona per la varietà di specifiche colture e prodotti è paragonabile ad una Regione: nella realtà nazionale, soltanto l’astigiano o forse il trapanese costituiscono contesti appena paragonabili. Un breve cenno ai fattori territoriali ed ambientali può agevolare la comprensione di tale peculiarità. Emerge la presenza del Lago di Garda, che costituisce un deciso calmiere climatico per tutta l’area, caratterizzata da una orografia montuosa a nord, alto collinare tipico delle Prealpi scendendo verso sud, assolutamente pianeggiante fino al confine con la Emilia, ma senza interesse, quest’ultima porzione, per la viticoltura. Le Prealpi veronesi – i Monti della Lessinia – sono formati da valli parallele con corsi d’acqua che affluiscono in torrenti e fiumi di portata sempre maggiore che vanno a sfociare nell’Adige, fiume principale proveniente dal Trentino (Valle Lagarina), per piegare decisamente verso est proprio all’imbocco della pianura, dirigendosi verso l’Adriatico parallelamente al Po. Oltre alla Val d’Adige / Lagarina, rivestono molta importanza la Valpolicella, che raccoglie i corsi d’acqua di Fumane, Marano e Negrar, la Valpantena, la Valle di Mezzane, la Val d'Illasi, le Valli Tramigna e d'Alpone, la Valle del Chiampo, e la Val d'Agno. Il clima può essere generalmente definito continentale ma, come detto, la presenza lacustre del Garda rende più miti gli eccessi fino a configurare nella zona un ambiente quasi mediterraneo. La circolazione delle masse d'aria caratterizza localmente le singole valli, dove sussistono internamente forti escursioni termiche estive (differenze fino a venti gradi tra il giorno e la notte). Le precipitazioni si attestano ad una media di 700–800 millimetri annui uniformemente distribuiti ed è molto elevata l’umidità che, soprattutto in autunno, da luogo alla formazione di nebbie. La composizione del suolo nella parte nord della Provincia varia da molto ghiaiosa nella parte alta delle valli della Lessinia, associata ad accumulo di sostanza organica in superfice (fossili di molluschi), anche su roccia ed argilla in profondità. Ghiaie e sabbie caratterizzano quasi tutto il corso dei torrenti, accompagnate dalla presenza di un substrato a tratti fortemente calcareo. Tutto ciò non ricorda il Kimmeridge della Borgogna? In ogni caso, il complesso di condizioni è estremamente favorevole per una elevata e variegata produzione vitivinicola di estrema qualità.
 
Così sono iniziati i miei due anni di permanenza a Verona, nei quali, fin dai primi momenti, mi è stato detto che l’Amarone si fa con la Corvina, il Corvinone, la Rondinella e la Molinara[5], ma alcuni produttori particolarmente attaccati al territorio ci mettono anche altre uve, sempre meno in produzione, tipiche del veronese, cioè l’Oseleta. La Negrara e la Cà Brusine; il Recioto deriva da “recia”, cioè orecchio in dialetto locale, in riferimento alle tipiche ali del grappolo di Corvina e di Corvinone che, trattandosi della parte più esterna del grappolo stesso maggiormente esposta al sole, contiene un più elevato tasso zuccherino e quindi viene prelevata per la produzione del vino dolce in questione, e così via. Le sensazioni che da neofita avevo quando assaggiavo per le prime volte l’Amarone erano quelle di grande pastosità del vino, dal colore rosso scuro e di consistente alcolicità. Il sentore che riuscivo a percepire, anche assai facilmente, era quello della ciliegia matura. Con una maggiore esperienza, posso dire che i vari Amaroni che ho assaggiato presentano a fattor comune un assetto limpido ed un colore rosso rubino intenso che, secondo l’invecchiamento, assume riflessi granati anche molto evidenti. La percezione della fluidità richiama l’idea di pastosità del vino che gli avevo inizialmente attribuito: al bicchiere, si ha la sensazione che il liquido trovi una forte resistenza allo scivolamento, mentre in controluce si denotano archetti e festoni assai duraturi, anticipazione di grande e piacevole alcolicità. All’analisi olfattiva non ci si può sottrarre fin da quando la bottiglia viene stappata o il vino viene versato nel bicchiere, in quanto gli aromi hanno proprio voglia di sprigionarsi dopo almeno quattro anni[6] di maturazione – affinamento – elevazione. Si avverte una intensità quasi al massimo grado della scala valutativa che va a cercare il naso senza attenderne l’aspirazione eterea, rivelando una grande finezza qualitativa, evidenza di uso di tecniche di vinificazione che nascono dal territorio, dalla tradizione e dalla dedizione di generazione di viticoltori. Si può dire che l’Amarone lo si associa subito alla terra dalla quale nasce e questa sensazione è davvero confermata dal fatto che il suo disciplinare prevede pressochè esclusivamente uve autoctone che, peraltro, non trovano attecchimento in nessuna altra parte del territorio nazionale. Alla prima impressione olfattiva, non si ha nemmeno il tempo di stabilire una categoria generica di aromi che subito buca la ciliegia: in alcuni casi il sentore è quello derivante dal frutto fresco spremuto con le dita, in altri è quello della ciliegia di Ravenna (quella grossa, i così detti duroni) intera e matura, in altri si riconosce la confettura o il sottospirito, sempre dello stesso frutto. Ognuno di questi ricollegamenti sembra contraddistinguere la zona produzione: il succo di ciliegia fresca è attribuibile al vino dei vigneti della Valle d’Illasi, non soltanto perché nell’area vi è una forte produzione di ciliegie, ma anche perché si tratta di siti aperti, dove il clima risente di una maggiore ventilazione e minore umidità, mentre l’escursione termica varia entro limiti relativamente contenuti.
 
L’odore di frutta matura intera, invece, sembra connotare l’Amarone Valpantena, dove i vigneti sono coltivati in ambienti territoriali più contenuti dai contrafforti collinari e si rileva una maggiore escursione termica soprattutto estiva; poi, la maggior parte del vino nella Valpolicella, dove l’ambiente è più chiuso dalle alture circostanti, è presente una maggiore umidità, vige una forte escursione termica non disgiunta da un favorevole soleggiamento, richiama l’abbinamento sensoriale con la confettura di ciliegie o anche di amarene.
 
Dopo questo primo impatto sensoriale e ricomposte idee, il sentore fruttato, in particolare di frutta rossa emerge con un orientamento, oltre che alla ciliegia, alla prugna matura ed ai frutti di bosco. Tale ultima sensazione, in particolare, la si percepisce per quei vini i cui vigneti sono a ridosso delle prime forestazioni della bassa Lessinia, continuando ad addentrarci nelle Prealpi veronesi risalendo il corso delle valli. Allora l’Amarone può presentare anche dell’humus, richiamando foglie e varie erbe inumidite dalla nebbia notturna che, garantito, qui rimane per tutta la giornata e per la notte successiva. Passati questi sentori primari, trascorso quindi il piacevole assalto alla narice, hanno modo di emergere tutta una serie di caratteristiche che richiamano l’importante periodo di maturazione in cui è mantenuto. Si affacciano, pertanto, i profumi vanigliati, si sente della spezia da condimento identificabile in pepe e talora noce moscata, ma ogni ulteriore sensazione a confronto con le prime è rispettosa delle altre, mai predominante ma pariteticamente consistente, tanto che, dopo un bel po’ di tempo, gli stessi speziati fanno strada a categorie floreali di inflorescenze a petalo grasso e setoso (rosa rossa, in particolare). Sono del parere che l’attenzione per un bicchiere di Amarone richieda due serate: la prima, appena necessaria soltanto per scoprirne i profumi, senza passare al materiale assaggio, bensì continuando a meditare sulle sensazioni ricevute; la seconda, per procedere alla degustazione vera e propria, ma è materialmente impossibile resistere alla tentazione. Pertanto, nessuno resiste al primo assaggio, dal quale emerge subito un’altra sensazione che prima delle altre buca immediatamente la schermata gustativa, proprio come il sentore di ciliegia ha fatto con l’olfatto, ma questa volta è bene andare per ordine. Indubbiamente secco, il calore che emana non tradisce la prima sensazione visiva di un vino caldo al punto dovuto, cioè in relazione al livello di maturazione sia minimo per disciplinare, sia intenzionalmente desiderato dal produttore. L’acidità è ben mitigata, ma varia da tipologia di terreno, essendo più evidente per gli Amaroni della Valpolicella e della Val Pantena, dai terreni a maggiore conformazione calcarea, rispetto a quelli della Val d’Illasi, più ciottolosi nella struttura. In questi ultimi, peraltro si avverte una superiore sapidità, proprio in ragione della prevalente mineralità offerta da tale tipologia di sottosuolo. In ogni caso anche la sapidità, presente ed apprezzabile, rientra nell’alveo di una generale armonia. Tannico al punto giusto, in realtà i tannini si sentono ma vengono bilanciati proprio dalla caratteristica che balza subito all’attenzione, costituita appunto dalla totalizzante morbidezza di cui l’Amarone è fornito. Ne risulta, pertanto un vino corposo, di assoluto equilibrio, la cui sensazione trigeminale fa fatica ad abbandonare il palato offrendo lunghe persistenze che, anche dopo, rimangono nella memoria sensoriale. Intenso e fine, ma soprattutto armonico in tutte le sue componenti. Proprio qui è da sottolineare la caratteristica propria del contesto organolettico dell’Amarone: se per armonia si intende il bilanciamento tra le varie fasi dell’approccio sensoriale, l’Amarone è armonico anche nelle intrinseche distonie, una per ogni contesto sensoriale: l’immediata percezione visiva di resistenza alla fluidità, l’impatto di ciliegia nelle diverse accezioni durante l’avvicinamento olfattivo, la improvvisa scoperta di morbidezza fin dal primo contatto col gusto.
 
Con tali premesse, non è facile, individuare un abbinamento che riesca a restituire al vino in questione un tale livello di qualità. Se mi è consentito esprimere una considerazione istintiva più che una ragionata conseguenza di sapori, direi che il migliore abbinamento per l’Amarone è con sé stesso, cioè da solo, prevalentemente in orario tardo crepuscolare quando la nottata si preannuncia fredda, umida e profondamente silenziosa, non per la naturale assenza di rumori bensì per la ovattata presenza di nebbia che, come la neve, assorbe tutti i suoni che in essa si generano. Poi, ma soltanto poi, è giusto abbinare l’Amarone a carni rosse, grigliate o a lenta riduzione, con la tipica polenta ed osei, con il Monteveronese stagionato quanto il vino stesso (almeno 24 mesi), con un risotto al tastasal o con la pastissada, ovviamente di cavallo.
 
Detta così, sembra che Verona si esaurisca con l’Amarone, ma, come noto, molti altri prodotti della vite la caratterizzano. Intanto, lo stesso Amarone altro non è che l’ultimo anello di una catena evolutiva che parte dalla D.O.C. Valpolicella, nei riferimenti “classico” e “Valpantena”, entrambi con la possibile specificazione di “superiore”, per continuare con la D.O.C. Valpolicella Ripasso. La composizione ampelografica dei tre vini è esattamente sovrapponibile, ma emergono alcune ovvie differenze, ad esempio, in termini di resa massima delle uve in vino finito (Amarone 40%; Valpolicella e Ripasso 70%), di titolo alcolometrico volumico naturale minimo (Amarone 14%, Valpolicella 11% e 12 per il “superiore”; Ripasso 12,50% e 13% per la tipologia “superiore”). L’Amarone deve poi essere sottoposto ad un periodo di invecchiamento di almeno due anni con decorrenza dal 1° gennaio successivo all'annata di produzione delle uve, mentre i “riserva” devono invecchiare almeno quattro a far data dal 1° novembre dell’anno della vendemmia, il Ripasso è immesso al consumo non prima del 1° gennaio del secondo anno successivo all’anno della vendemmia, mentre il Valpolicella “superiore” necessita – per essere denominato tale – di almeno un anno.
 
Le peculiarità di maggiore importanza sono tuttavia nei metodi e nelle procedure di vinificazione, anzi potrei dire che esse quasi si intersecano tra di loro. Vediamo in breve cosa succede: a seguito della vendemmia, vengono selezionate le uve migliori (difficile dire quali siano, dato che la cura molto particolare della pergola veronese o tendone comporta una produzione di elevata qualità in ogni sito) che sono collocate all’interno di capannoni nell’ambito delle cantine (generalmente il piano superiore a quello in cui avviene la produzione del vino). I grappoli vengono adagiati su graticci adesso in materiale plastico, prima in canne, dove, grazie ad una aerazione rigorosamente controllata iniziano un processo di appassimento che dura almeno fino a gennaio[7]. Il ricambio dell’aria, un tempo assicurato dalla ordinaria ventilazione effettuata attraverso luci ricavate nei sottotetti che venivano aperte o socchiuse secondo necessità, oggi viene condotto per il tramite di ventole, la cui velocità viene variata in base alla temperatura ed al grado di umidità tenuto costantemente sotto controllo da igrometri monitorati anche con apposito programma informatizzato. L’appassimento costituisce una fase assai delicata, in quanto l’acino è esposto sia al possibile attacco di parassiti, sia alla presa di muffe dannose che comprometterebbero l’intero grappolo. Nel frattempo, l’uva segue un processo di disidratazione, che le fa perdere almeno la metà del peso, con conseguente maggiore concentrazione degli zuccheri. Parallelamente, viene a disperdersi anche parte della acidità – quella volatile – a tutto favore dei polialcoli, che poi conferiscono alla vista quella nota di densità del liquido stesso. Terminata questa procedura, si da luogo alla vinificazione ed all’inizio dell’elevazione in botte, o meglio nei particolari fusti veronesi, manufatti a sezione ovoidale dalla capienza media da 900 a 1.200 litri. Nel frattempo, dai grappoli d’uva meno nobili è già stato prodotto il vino dell’anno: quest’ultimo in parte è destinato al Valpolicella e può essere messo direttamente in bottiglia (eccellente vino anche da pronta beva con piacevolissime note di ciliegia fresca), oppure in parte invecchiato almeno un anno prima di essere commercializzato con la denominazione “superiore”. Del tutto originale, invece, la produzione del Ripasso, le cui tecniche si sono via via affinate con il tempo, con l’esperienza dei viticoltori e dei vinificatori e con la voglia di qualificare sempre più la terra veronese: nel mese di marzo successivo alla vendemmia, il Valpolicella viene rifermentato sulle vinacce utilizzate per la produzione dell’Amarone per un periodo di circa tre settimane. Tale contatto consente non soltanto un ulteriore arricchimento di tannini a favore del Valpolicella, derivandoli dai vinaccioli dei grappoli appassiti, ma anche una accelerazione zuccherina che conferisce maggiore alcolicità e struttura al vino che ne consegue, rispetto al Valpolicella. Il Valpolicella Ripasso D.O.C. presenta, infatti, maggiore morbidezza rispetto al vino base, con note di frutta rossa senz’altro più insistenti, ma con una morbidezza che effettivamente fa la differenza. La pratica di ripassare il vino mi ha per un po’ fatto venire alla mente una metodologia usata per il Chianti denominata il “governo all’uso toscano”, che prende origine fin dal secolo scorso sulla base delle rigorose indicazioni di produzione dettate dal Ricasoli. Governare significa in realtà far fermentare una seconda volta il vino (o anche una terza volta, secondo le annate, nel qual caso si parla di rigoverno) nelle uve, leggermente appassite, utilizzate per la produzione del Chianti stesso, mentre il Valpolicella viene messo a contatto con le vinacce che hanno già prodotto l’Amarone (uve comunque precedentemente appassite). La differenza consiste, secondo il parere di chi scrive, in una maggiore velocità di passaggio ed un maggiore spettro di sostanze chimiche dalle vinacce al vino, nel caso del Ripasso, che consente a quest’ultimo di trovare già subito una forte caratterizzazione, fissata immediatamente con la collocazione in botte. Il governo comporta, invece, un transito più lento di sostanze, di quelle però più sensibili al processo di osmosi – quali gli zuccheri – conferendo al vino maggiore propensione alle componenti morbide rispetto a quelle dure, tant’è che talora, per far acquisire al vino una maggiore struttura, nel periodo primaverile si procede ad un secondo governo (per il Ripasso, invece, non è mai previsto un secondo ripasso).
 
In ogni caso, anche se l’Amarone spicca tra gli altri, la terra stessa offre molto di più: soltanto in tema di rossi, non posso sottacere quelli che io chiamo i supertuscan veneti, vinificazioni in purezza o in uvaggio impiegando ottime uve Merlot e Cabernet Sauvignon, transitando per il Malbec ed il Carmenere. Ma Verona si distingue anche per i bianchi: eccellente a tal proposito il Lugana, figlio di un clima quasi Mediterraneo essendo prodotto prevalentemente dai vitigni dei dolci clivi sul Lago di Garda, con particolare riguardo al comune di Peschiera del Garda[8], per il quale, se non me lo avessero detto durante il corso, avrei stentato a credere che l’uva di derivazione sia il Trebbiano[9]. Altrettanto di rilievo il Soave Superiore D.O.C.G., espressione nobile della corrispondente Soave D.O.C., prodotto esattamente dalla parte opposta della Provincia, in tutti i comuni che da Verona si estendono fino al confine con la limitrofa Vicenza. Grande pregio, secondo il parere dello scrivente, questo vino della cui denominazione “classico” possono fregiarsi soltanto i comuni di Soave e di Monteforte d’Alpone. Prodotto con uva Garganega per almeno il 70%, può contenere anche il Trebbiano di Soave e lo Chardonnay, uvaggio che conferisce al risultato finale un profumo fruttato in prevalenza, ma con note apprezzabili di fiori bianchi, connotato da medio – bassa acidità e un po’ amarognolo, tanto che gli antichi romani gradivano assaporarlo tra uno spettacolo e l’altro tenuto al Colosseo veronese (l’Arena di Verona) e lo trovavano talmente accattivante al palato da associargli l’appellativo di “suavis”.
 
Ma poi mi è successa una cosa particolare. Infatti, vivendo Verona, non ho potuto sottrarmi dal bere uno spritz, presso un locale di Sottoriva insieme ad alcuni conoscenti. Devo dire che non mi era dispiaciuto anche per la buona capacità dissetante e rigenerante che tale bevanda apporta all’organismo. Mi ha dato fastidio, nella circostanza, l’eccessiva presenza di ghiaccio, che alla fine annacqua anche il più generoso dei blend, e la presenza della bollicina, grossa ed insapore, del seltz. Ho quindi voluto riprodurlo a casa, eliminando sia il ghiaccio, e per tale motivo prendendo gli ingredienti ben freddi di frigorifero, sia qualsiasi traccia di acqua gassata, ricorrendo invece ad uno spumante casualmente donatomi proprio in quei giorni e messo distrattamente al fresco, senza guardare nemmeno l’etichetta, anche perché ero certo trattarsi di un ordinario prosecco. Ho quindi miscelato soltanto le due componenti senza né limone, né arancia, lasciando invece spazio ad una fragola prodotta nelle campagne di Legnago, tagliata in due pezzi.
 
Il sapore che ne è sprigionato è stato del tutto diverso dal qual primo aperitivo di Sottoriva, tanto che ho pensato fin da subito potesse trattarsi del bianco spumantizzato che avevo usato. Un occhio più attento all’etichetta mi ha fatto leggere la parola Durello, nome che sinceramente non avevo mai sentito prima del mio arrivo in Veneto. Da un fatto casuale ho scoperto un nuovo modo di bere. È passato un po’ di tempo prima di capire che il Durello era il vino e la Durella il vitigno posto alla base ampelografica, ma questo ha contribuito ad arricchire la mia conoscenza in materia: prodotto sui monti, anzi sui rilievi collinari della Lessinia, che come abbiamo visto costituiscono la parte veronese del complesso delle Prealpi, il vino in questione viene condiviso con la Provincia di Vicenza, essendo i vigneti collocati a cavallo del confine. Il vitigno considerato è anch’esso autoctono ed il nome Durella prendono spunto proprio dal particolare epicarpo dell’acino, piuttosto spesso e coriaceo. Il terreno ghiaioso e ben mineralizzato da luogo ad una elevata acidità del prodotto finito. Tutto ciò ha recentemente originato la D.O.C. Lessini Durello o Durello Lessini, caratterizzata dalla presenza di almeno 85% di uva Durella, accompagnata per il rimanente 15% da Garganega, Pinot (bianco o nero) e Chardonnay. Il metodo di fermentazione, a differenza del vicino Prosecco prodotto esclusivamente secondo i dettami del nostro Martinotti, può essere sia in autoclave, per i vini base, sia in bottiglia col metodo classico, per la classificazione “riserva”. Non metto il Durello nel flut, ma uso quello per lo Chardonnay affinchè si riempia maggiormente con gli aromi del vino. Abbastanza limpido nel complesso, si presenta come giallo paglierino con riflessi anche dorati se viene usato del Pinot Nero. Bella la vivacità dei movimenti all’interno del bicchiere stesso, perché ad una buona spuma che svanisce abbastanza presto si associa un perlage numeroso, inaspettatamente persistente con catenelle continue che nascono da punti fissi del fondo del calice, con una grana delle bollicine più che fine e gradevole alla vista e già da qui si percepisce una apprezzabile acidità trigeminale se qualche parte volatile – proveniente dalla rottura delle bollicine – raggiunge inavvertitamente il naso. Si sente una buona intensità olfattiva, fine e persistente, con immediati sentori di fruttato – con propensione agli agrumi ed alla pesca – e di fragrante.
 
Il Durello viene prevalentemente prodotto in brut o pas dosè[10] e tale nota secca è percettibile senza intermediazione, alla quale associa una relativa alcolicità ed una discreta morbidezza, mentre la fanno un po’ da padrone la freschezza e la sapidità, senza eccessive spigolature. Per questo motivo lo trovo un vino di grande sensazione trigeminale lunga e piacevole, equilibrato nella sua caratterizzazione, e molto fine. Tale vino va servito fresco, alla temperatura alla quale lo ebbi ad assaggiare per la prima volta, con una consistente condensa sulla bottiglia e, se mi posso permettere, con gamberoni rossi di Terrasini (PA) rigorosamente crudi, con annessi testa e carapace: la natura dell’Italia oltrepassa, come anche in questo caso, peculiarità meramente regionali, per offrire veramente l’identità di essere sé stessa in ogni sua espressione, se pure variamente originata.
 
Un’ultima cosa. Bighellonando tra i numerosissimi stands della più grande manifestazione vinicola al mondo che si tiene in Verona nel periodo primaverile, ad un certo punto è come se avessi avuto una percezione improvvisa, cha andava sempre più trovando conferma  ogni volta che giravo padiglione e ne visitavo un altro, dalla Puglia alla Lombardia, dall’Italia alla Francia. Ogni cantina disponeva di almeno una figura di rilievo, agronomo, enologo, responsabile del marketing, o lo stesso produttore, donna. Da allora, ho oramai consolidata la convinzione che il connubio donna – vino sia inscindibile ed ogni ulteriore ricerca, sviluppo ed incremento qualitativo d’immagine sia indispensabile per conseguire sempre maggiori risultati. Tale aspetto ritengo che sia una caratteristica soprattutto italiana, in quando, benché siano presenti aziende oramai ad ampio respiro di mercato, credo che la maggior parte dei produttori nazionali siano costituiti da famiglie, gruppi familiari che tramandano di generazione in generazione le proprie conoscenze, segreti, timori, speranze e certezze, e la stessa fondamentale posizione, quindi, che la donna italiana in particolare assume nella famiglia, viene pantografata nell’ambito aziendale. Ma secondo me c’è di più: la maggiore sensibilità caratteriale e di temperamento di cui le donne dispongono le rendono particolarmente protese a capire, apprezzare, giudicare cambiare il mondo del vino e su questo piano, ne sono convinto, la sfida dell’immagine dell’enologia italiana sarà assolutamente vinta con un vantaggio molto più rilevante di quello attuale.
 
[1]    Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto III, scena III, trad. Carcano (att.).
[2]    Verdi, romanza Celeste Aida, Aida, atto I, scena I, Ghislanzoni.
[3]    Rossini, cavatina Largo al factotum, Il barbiere di Siviglia, atto I, scena II, Sterbini.
[4]    Puccini, romanza Nessun dorma, Turandot, atto III, scena I, Adami, Simoni.
[5]    L’Amarone della Valpolicella è composto da Corvina Veronese dal 45% al 95 %, con la possibile presenza del Corvinone fino ad un massimo pari al 50%, in luogo della pari quantità di Corvina. È prevista la Rondinella dal 5 % al 30 %. Possono concorrere fino ad un massimo del 25% totale le uve provenienti dai vitigni a bacca rossa non aromatici, ammessi alla coltivazione per la provincia di Verona in misura massima del 15%, con un limite massimo del 10% per ogni singolo vitigno utilizzato, nonché classificati autoctoni italiani a bacca rossa, ammessi alla coltivazione per la stessa Provincia.
[6]    Periodo necessario per i vini designati con la specificazione “riserva”.
[7]    Secondo il disciplinare, tale periodo varia da 100 a 120 giorni da quello della vendemmia.
[8]    La D.O.C. Lugana, in realtà, si divide tra le province di Brescia e di Verona, caratterizzando il quadrante meridionale dello specchio lacustre.
[9]    Trebbiano di Soave per almeno il 90%.
[10]  Secondo la classificazione da Regolamento Cee del 2009, lo spumante in relazione al residuo zuccherino g/l si denomina in: Pas dosé  < 3; Extra brut  ≤ 6; Brut  < 12; Extra dry  12-17; Dry o Sec  17-32; Demi sec 32-50; Dolce  > 50.