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Le “guide dei vini” tra classifiche e vini emozionali

di Francesco Rovida

12/11/2008

Da diverse settimane le librerie di tutta Italia come anche le edicole espongono in bella vista le diverse “guide” del settore enologico. E allo stesso modo impazzano sui forum, più o meno specializzati, i confronti e le discussioni tra intenditori e semplici appassionati sui premi meritati e quelli inspiegabili, insieme ai “consigli” oppure le conferme, mediante i propri assaggi, dei giudizi pubblicati. Qualcuno si sta divertendo anche a confrontare le valutazioni date a singole bottiglie per verificare chi è stato più corretto oppure eccessivamente rigido nel giudizio. Altri preparano una sorta di “classifica delle classifiche” con la convinzione (oppure l'illusione) di scovare i vini migliori d'Italia.
Tanti operatori del settore (rappresentanti, ristoratori, sommelier, ecc.) elencano i diversi premi ricevuti come certificazioni della qualità dei prodotti e altri certamente partono dalla consultazione delle guide per decidere i propri acquisti. Molti criticano questo sistema, ma, di certo, non si può prescindere dalla sua esistenza.
Alcuni anni fa una nota trasmissione televisiva si era occupata di queste guide, evidenziando e denunciando gli elementi di vulnerabilità del sistema, ma non è certo questo l'argomento di cui intendo occuparmi, anche perchè, devo confessarlo, spesso consulto le guide, senza nemmeno limitarmi ad eleggerne una come “Bibbia enologica”, ma raccogliendo con una certa curiosità le informazioni che riesco a ricavarne.
Lo spunto è, invece, legato più che altro al tema didattico della valutazione, di cui ho avuto l'occasione di occuparmi per ragioni professionali, e che si ripropone nell'alternativa: “guide o pagelle”?
Perchè, di fatto, le cosiddette “guide dei vini” sono anche pagelle, con tutto il loro apparato tecnico di bicchieri e grappoli, corone e sfere, bottiglie e centesimi, che altro non sono se non la traduzione enologica di voti e giudizi scolastici. E, si sa, anche a scuola la valutazione è uno degli elementi più scomodi e criticati, ma del quale non si riesce a fare a meno.
Già agli inizi del secolo scorso diversi studi hanno evidenziato le enormi falle del sistema di valutazione scolastica, sottolineando le differenze di giudizio per lo stesso elaborato da parte di docenti diversi, come anche la mancanza di affidabilità del giudizio del medesimo insegnante a distanza di un po' di tempo.
Da questi studi è nata una disciplina, la docimologia, che si è occupata di studiare la valutazione e proporre i più adeguati correttivi necessari a renderla se non proprio oggettiva almeno affidabile.
Lo stesso ragionamento deve essere onestamente fatto anche nel momento in cui, dopo aver degustato un vino, si traduce questa esperienza in un punteggio, comunque esso sia espresso. Chi garantisce la coerenza tra diversi degustatori dello stesso prodotto? Chi può assicurare la costanza del giudizio in una sessione di degustazione che prevede alcune decine di vini? Come si può assicurare analogo sistema di giudizio a vini diversi, degustati da persone diverse in momenti diversi, ma che confluiranno nella stessa guida e saranno confrontati tra loro?
Non credo ad una ipotesi di assoluta scientificità oggettiva in un campo legato alla soggettività come quello del gusto. Ma penso che sia utile prendere in considerazione alcuni elementi che potrebbero favorire una maggiore trasparenza ed affidabilità, forse non sufficientemente garantita dalla “pubblicità” delle degustazioni finali che alcune guide stanno giustamente promuovendo da un po' di tempo.
Offro alcune semplici proposte, che ritengo assolutamente non esaustive dell'argomento, ma come potenziale avvio di una riflessione:

esplicitare con chiarezza quali sono gli elementi presi in considerazione nella valutazione dei diversi vini;
formare i degustatori sugli elementi oggetto della valutazione e sulle difficoltà riscontrabili in un processo di valutazione;
costituire gruppi di degustazione confrontabili tra loro per numero di membri e numero di vini da degustare;
rendere pubbliche le modalità con cui sono state condotte le valutazioni (quante persone nelle commissioni, quanti vini degustati in ogni circostanza, ecc.);
inserire confronti mediante “gruppi di controllo”;
ampliare le descrizioni qualitative a scapito delle classificazioni.


E' probabile che queste ipotesi possano produrre un aumento di rigidità nella formulazione delle valutazioni, ma ritengo che sia una giusta esigenza per pubblicazioni che, di fatto, sono ben più che orientative per il mercato, tanto in termini di valore dei prodotti che di vendite, almeno fino a quando producono effettive classifiche quantitative oltre che qualitative.
Ho trovato di assoluto interesse le riflessioni proposte da Cernilli e Piumatti nella presentazione della guida edita da Slowfood e Gambero Rosso, quando dicono: “Concetti come la coerenza e la rappresentatività di un vino con la tipologia di appartenenza, o con l’idea di correttezza enologica, sono abbastanza difficili da codificare. Esistono vini “emozionali”, che fanno passare in secondo piano eventuali piccoli difetti enologici (...). Sostenere che bisogna fermarsi solo a “ciò che c’è nel bicchiere”, senza ragionare e senza esercitare il ruolo di critici, è quanto di meno lungimirante si possa fare. Perciò, che il vino sia buono, ovviamente, ma anche rappresentativo, rispettoso dell’ambiente e non prono rispetto alle mode o alle tendenze del gusto e del mercato internazionali. Crediamo che i vini prossimi venturi dovranno tenere presente questi elementi”.
E' vero: non si può rinunciare ad avere un atteggiamento critico, ad esprimere il proprio parere con chiarezza e senza essere troppo “politicamente corretti”, a coinvolgere gli aspetti “emozionali”, andando oltre quelli strettamente tecnici.
Il dubbio mi assale, però: è possibile fare questa operazione continuando a mettere i vini in classifica?

Francesco Rovida